L’angolo del Trust, a cura del Prof. Mauro Norton Rosati di Monteprandone
La vita di una famiglia, sia nei momenti fisiologici che in quelli di crisi, porta sempre con sé il naturale bisogno di protezione dei suoi componenti più fragili (minori, anziani, portatori di una qualche patologia o comunque non autosufficienti).
Con questo obiettivo si cerca spesso lo strumento maggiormente in grado di assolvere a tale funzione di tutela affidandosi, in molti casi, a quelli più noti (si pensi, ad esempio, al Fondo patrimoniale o ad alcune forme di assicurazione) e non di rado nel momento della crisi della coppia (separazione o divorzio) alle decisioni di un giudice.
Tuttavia, prima di operare qualunque scelta, è bene sapere che esiste un istituto giuridico duttile e perfettamente in grado di soddisfare le esigenze di tutela della famiglia e del suo patrimonio: si tratta del Trust.
Il ricorso allo strumento del Fondo patrimoniale a tutela del patrimonio familiare è certamente più frequente rispetto a quello del Trust. Eppure tra i due istituti esistono rilevanti differenze, tali da rendere il Trust più vantaggioso nella regolazione dei rapporti economici familiari, anche prescindere dal momento della crisi della coppia. Vediamone alcune:
Pensando al Trust quale strumento di maggior tutela dei minori rispetto al Fondo patrimoniale, giova richiamare una pronuncia di qualche anno fa relativa al caso in cui una coppia di genitori, volendo trasferire in Trust alcuni beni già sottoposti al Fondo patrimoniale chiedeva al Tribunale la autorizzazione alla riduzione del Fondo (e quindi, sostanzialmente, alla trasformazione del Fondo in Trust), nell’interesse dei figli minori; autorizzazione che il tribunale ha ritenuto di concedere in ragione delle maggiori garanzie offerte dal Trust a tutela dei beneficiari .
Lo STUDIO CASSIEL ha sperimentato la “trasformazione” del “fondo patrimoniale in Trust”.
Il trust trova un’efficiente area di utilizzo nei procedimenti di separazione e di divorzio, quando si tratta di affrontare lo spinoso problema della sistemazione dei beni già comuni. Spesso infatti gli ex coniugi “litigano” sulla intestazione di questi beni (si pensi all’appartamento dove la coppia viveva) e, per comporre questo dissidio, frequentemente si ricorre all’intestazione ai figli, nella quale entrambi i coniugi trovano “garanzia”.
Tuttavia, vi è da fare il conto che, in molti i casi, i figli sono ancora minorenni oppure sono comunque inesperti, e quindi non capaci di gestire il patrimonio loro intestato; infine, spesso si tratta di conciliare l’intestazione ai figli con l’esigenza di uno dei genitori di utilizzare stabilmente e tranquillamente i beni in questione (ad esempio abitarvi), e quindi senza subire decisioni dei figli contrastanti con questi obiettivi.
Un caso simile a quello appena ipotizzato è stato oggetto di valutazione da parte del Tribunale di Milano, il primo a provvedere molti anni orsono, in sede di omologazione, di un accordo di separazione, nel cui ambito è stata appunto convenuta l’istituzione di un trust con il fine di “garantire” alla figlia minorenne dei coniugi che si sono separati di ottenere la piena proprietà di un’abitazione al compimento del suo trentesimo anno di età.
Il trust che ha avuto il crisma dell’omologazione del tribunale milanese aveva dunque come finalità quella di soddisfare le esigenze abitative della figlia minore nata dal matrimonio e di trasferirle un immobile in piena proprietà al termine del trust: si trattava, quindi, di “”segregare”” (questo è il termine entrato nell’uso comune per descrivere l’effetto sostanziale di qualsiasi trust) un bene immobile e di assicurarne la destinazione.
L’effetto segregativo non sarebbe dunque stato possibile qualora l’immobile fosse rimasto di proprietà del padre, in quanto esso, ad esempio, avrebbe potuto essere un possibile oggetto di aggressione da parte di qualsiasi suo creditore, mentre la certezza della destinazione non si sarebbe verificata qualora l’immobile fosse stato trasferito fin da subito alla figlia minore, perché l’edificio stesso avrebbe potuto essere alienato nel corso degli anni successivi e avrebbe comunque “risposto” dei debiti che, crescendo, la figlia avrebbe potuto contrarre.
Ancora, trasferendo immediatamente l’immobile alla figlia, esso passerebbe, in caso di morte della figlia stessa prima del compimento del trentesimo anno di età, ai suoi eredi testamentari e, in mancanza di testamento, ai suoi eredi legittimi e cioè (in mancanza di figli) ai suoi stessi genitori, per allora probabilmente divorziati. L’atto istitutivo del trust prevedeva invece che l’immobile “tornasse” al padre qualora la figlia non giungesse al proprio trentesimo compleanno.
Si trattava, quindi, di “”sterilizzare”” le vicende patrimoniali e personali sia del padre che della figlia e solo il trust poteva assicurare questo obiettivo; ciò che il Tribunale ha dunque riconosciuto come legittimo e quindi validato.
Il provvedimento favorevole del Tribunale di Milano ha tra l’altro assunto, oltre che il ruolo di un importante precedente nella materia del trust nel diritto di famiglia, anche un ulteriore duplice rilievo: il riconoscimento, da un lato, della validità del cosiddetto trust “”interno”” (quello fatto in Italia da soggetti italiani con riguardo a beni ubicati in Italia) e la conferma, d’altro lato, della utilizzabilità della formula del trust cosiddetto “”autodichiarato””, quello cioè ove il disponente nomina se stesso quale trustee, con ciò vincolandosi a dare ai beni oggetto del trust la finalizzazione indicata nelle tavole costitutive del trust stesso.
Con il trust “”autodichiarato””, il padre, proprietario dell’immobile destinato alla figlia, ne è rimasto quindi proprietario ma è divenuto obbligato a seguire le disposizioni dell’atto istitutivo del trust, redatto d’intesa con la moglie. In caso di sua morte nel vigore del trust non si verificherà successione ereditaria per quanto riguarda quell’immobile che, essendo “segregato”, passerà non più ai suoi eredi, ma al nuovo trustee, in vista di entrare in proprietà della figlia beneficiaria al compimento del suo trentesimo anno d’età.
Convivenza more uxorio e unioni civili
L’espressione “convivenza more uxorio” identifica la famiglia di fatto, vale a dire l’unione tra due persone che, pur non avendo contratto matrimonio tra loro, convivono ripetendo lo stile di vita proprio delle coppie sposate.
Si definiscono unioni civili tutte quelle forme di convivenza di coppia tra persone dello stesso sesso, basata su vincoli affettivi ed economici, alla quale la legge riconosce attraverso uno specifico istituto giuridico uno status giuridico analogo, per molti aspetti, a quello conferito dal matrimonio (Legge 20 maggio 2016 N. 76)
Esaminando bene tale normativa ci si accorge che sono più tutelati i soggetti che si “uniscono civilmente” rispetto all’ordinario rapporto di “more uxorio”!