IL TRUST NELLA CRISI DI IMPRESA: UNA SOLUZIONE POSSIBILE ED INNOVATIVA MA CONTRASTATA (PRIMA PARTE)

IL TRUST NELLA CRISI DI IMPRESA: UNA SOLUZIONE POSSIBILE ED INNOVATIVA MA CONTRASTATA (PRIMA PARTE)

L’angolo del Trust, a cura del Prof. Mauro Norton Rosati di Monteprandone

Negli ultimi anni è stato oggetto di ampia diffusione, a livello di prassi, il ricorso all’istituto giuridico del trust anche nella gestione della crisi d’impresa.

Con l’espressione, di uso corrente, ‘trust liquidatorio’ si identifica una particolare tipologia di trust, le cui caratteristiche distintive consistono nell’essere istituito da un imprenditore (indifferentemente, persona fisica o giuridica), nonché nell’essere oggetto del conferimento in trust il patrimonio aziendale o parte di esso.

Dal punto di vista strutturale, il trust liquidatorio può essere costituito nella forma del trust con beneficiari, coincidenti, nello specifico, con i creditori, ovvero nella forma del trust di scopo, rappresentato dalla finalità di soddisfare i creditori del settlor.

Il fine del trust liquidatorio è, generalmente, quello della liquidazione del patrimonio aziendale con l’obiettivo di soddisfare i creditori con i proventi della liquidazione.

Il trust liquidatorio è, tuttavia, funzionalmente idoneo a realizzare anche obiettivi diversi.

Potrebbe, a titolo esemplificativo, essere istituito con l’obiettivo di liquidare il patrimonio sociale segregato con una procedura che sostituisce in toto la ‘classica’ procedura liquidatoria ovvero con una procedura che mira alla realizzazione, con mezzi diversi, del medesimo risultato: recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società.

Il ricorso al trust potrebbe anche porsi quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa: per il settlor che versi in una situazione di crisi di liquidità, contraddistinta, tuttavia, da margini di ripresa, il ricorso al trust liquidatorio si configurerebbe come astrattamente funzionale ad evitare lo stato di insolvenza e la proposizione dell’istanza di fallimento da parte dei creditori. In tale ipotesi il trust è definito ‘endo-concorsuale’.

Infine, il trust potrebbe essere istituito in sostituzione della procedura fallimentare al fine di impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente: in tale ipotesi il trust è definito ‘anti-concorsuale’.

Su tale possibilità è intervenuta la Corte di  Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2017, n. 12925.

La quaestio iuris che maggiormente è stata (e continua ad essere) sottoposta al vaglio della magistratura attiene alla idoneità, da un punto di vista funzionale, del trust liquidatorio alla composizione della crisi d’impresa.

la Corte di cassazione si è  pronunciata in materia di trust liquidatorio: i Supremi Giudici, al cui esame è stata sottoposta una controversia relativa alla dichiarazione di fallimento di una società in accomandita semplice, hanno confermato la sentenza impugnata, per aver «puntualmente» ritenuto che in sede di dichiarazione di fallimento della società non rilevasse «in senso contrario la segregazione in trust da parte del socio illimitatamente responsabile della società, visto che alla costituzione del trust nessuna attività di concreta liquidazione aveva fatto seguito».

A livello di giurisprudenza di merito, molti sono stati i casi in cui i Tribunali e le Corti d’Appello hanno negato la validità di trust costituiti nella forma del c.d. Trust liquidatorio, in quanto ritenuti – in concreto – privi di finalità liquidatoria per essere l’unico obiettivo perseguito dal settlor quello di segregare il patrimonio in frode ai creditori.

Ma oggi come siamo messi in tema di ammissibilità del trust liquidatorio?

L’unica normativa di riferimento è rinvenibile nella legge 16 ottobre 1989, n. 364, mediante la quale l’istituto del trust è stato introdotto, a livello ordinamentale, mediante la ratifica e l’esecuzione della Convenzione adottata a L’Aja il 1° luglio 1985, sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento: «l’istituto del trust è stato recepito nell’ordinamento italiano, non con una regolamentazione diretta dello stesso, ma con l’adesione alla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata in Italia con legge 16.10.1989, n. 364, in forza della quale lo Stato Italiano si è obbligato al “riconoscimento” di un istituto sicuramente estraneo al proprio ordinamento, soggetto alla legge regolatrice scelta dal disponente, non definito concettualmente, ma descritto nelle sue caratteristiche minime (in particolare si vedano artt. 2 e 11 della Convenzione» (in termini, Corte App. Venezia, 10 luglio 2014).

A seguito della ratifica, senza riserve, della Convenzione de L’Aja, in Italia possono essere riconosciuti effetti giuridici al trust costituito secondo la legge di uno Stato che lo preveda nel proprio ordinamento giuridico come istituto tipico.

Il primo comma dell’art. 2 del testo convenzionale definisce il trust come il complesso dei «rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato».

Il secondo comma del menzionato art. 2 individua i seguenti elementi essenziali del trust, la cui ricorrenza è necessaria al fine della qualificazione giuridica della fattispecie concreta come trust:

  • la distinzione dei beni del trust dal patrimonio del trustee;
  • l’intestazione degli stessi al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee;
  • il conferimento al trustee del potere, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee.

Requisito essenziale del trust è l’effettivo potere-dovere del trustee di amministrare e disporre dei beni ad esso affidati dal settlor, con la conseguenza che i diritti e le facoltà che il settlor può riservare a sé stesso devono essere tali da non precludere al trustee il pieno esercizio del potere di controllo sui beni (cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa e Contenzioso n. 8/E del 17 gennaio 2003). Il Tribunale di Milano propende però per la tesi della nullità che con l’ordinanza del 16 giugno 2009, Est. Dott. D’Aquino, emessa, peraltro, in un’epoca in cui i Giudici di legittimità non si erano ancora pronunciati ex professo su tale tipologia di trust, il Giudice meneghino ha affrontato la quaestio iuris della sopravvivenza al fallimento del disponente (nel caso specifico, una società in nome collettivo) dell’atto istitutivo di un trust avente ad oggetto il conferimento in trust del patrimonio aziendale e come beneficiari, in via immediata, i creditori sociali e, in via gradata, i creditori postergati, i finanziatori della società e i soci.

Come osservato preliminarmente dal Tribunale, «[i]l problema riguarda la compatibilità del trust con la disciplina di diritto interno del fallimento sopravvenuto del disponente e la possibilità che il trust che vede come beneficiari i creditori (tutti) di un imprenditore sopravviva alla dichiarazione di fallimento del disponente».

Pregiudiziale, rispetto alla risoluzione della suddetta quaestio iuris, si pone, a giudizio del Giudice meneghino, l’ulteriore (e diversa) questione della riconoscibilità a livello ordinamentale del trust.

Il Tribunale di Milano, con la citata ordinanza, ha ritenuto che «in linea di principio non può ritenersi incompatibile con la disciplina concorsuale … un trust liquidatorio che persegua per conto del disponente in bonis finalità di tutela dei creditori quali beneficiari del trust», potendo il debitore «conferire in trust alcuni beni laddove tale conferimento assicurasse la migliore utilizzazione di quei beni».

In sostanza, il trust «costituirebbe una alternativa alle procedure concorsuali, come nel caso di concordati stragiudiziali, ovvero di operazioni temporanee che servano a coadiuvare promuovendo procedure concorsuali minori».

L’imprenditore potrebbe, secondo il ragionamento del Giudice meneghino, «astrattamente costituire in trust alcuni beni (es. i crediti contenziosi)» a condizione, però, che «tale segregazione consenta di perseguire, come in effetti persegue, l’interesse di ottimizzare l’interesse dei beneficiari (i creditori)».

La relativa valutazione, tuttavia, è «condizionata dalla qualità dell’articolazione del programma negoziale contenuto nell’atto istitutivo».

In nessun caso, invece, il trust potrebbe sostituirsi o precludere la liquidazione fallimentare «laddove si ponga come trust liquidatorio dell’intero compendio aziendale della società poi fallita».

Ciò che rileva, secondo il Giudice meneghino, è la causa concreta del negozio posto in essere, da indagare caso per caso e in considerazione della condizione finanziaria in cui versava il settlor all’epoca dell’istituzione del trust: ove il trust risulti essere stato istituito con la finalità di segregare tutti i beni dell’impresa in danno dei creditori del settlor, con l’effetto, concreto, di precluderne l’apprensione da parte della curatela fallimentare del disponente, sarebbe incompatibile con l’ordinamento italiano.

Ciò a maggior ragione nell’ipotesi in cui il disponente versasse, già all’epoca dell’istituzione del trust, in condizione di insolvenza e fosse, in ragione di tale condizione, obbligato, per intervenuta perdita dei mezzi propri, a fare ricorso agli istituti concorsuali.

In altri termini, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa del fallimento del settlor «la gestione e liquidazione degli asset del disponente fallito non può essere più proseguita sulla base di un regolamento negoziale del disponente, ma invito domino secondo le regole della liquidazione concorsuale».

Gli effetti tipici della dichiarazione di fallimento (quali, a titolo esemplificativo, lo spossessamento del fallito a tutela dei creditori e la speciale regolamentazione della liquidazione dei beni del fallito) si appalesano incompatibili con la conservazione di un istituto fiduciario di fonte privatistica quale è, per l’appunto, il trust.

Con la conseguenza, di ordine giuridico, che «il fallimento sopravvenuto si configura come causa sopravvenuta di scioglimento dell’atto istitutivo del trust, analogamente a quelle ipotesi negoziali la cui prosecuzione è incompatibile con la dichiarazione di fallimento».

Secondo il ragionamento del Tribunale di Milano, pur non essendovi – né nella legge fallimentare né nella Convenzione de L’Aja – una espressa norma di regolazione del conflitto, il cennato effetto di scioglimento costituirebbe il risultato dell’applicazione in via analogica di «quelle disposizioni che prevedono lo scioglimento ex lege di fattispecie negoziali stipulate dall’impresa in bonis la cui prosecuzione non è compatibile con la liquidazione fallimentare (artt. 76, 77 e soprattutto art. 78 l.f.)».

Nell’ipotesi, opposta, in cui all’atto dell’istituzione del trust il settlor fosse già in stato di insolvenza (ovvero nelle condizioni per poter accedere immediatamente, senza l’intermediazione di altri atti negoziali, agli istituti concorsuali), l’atto istitutivo sarebbe da ritenersi «illecito sin dall’origine e, quindi, non riconoscibile ex art. 11 conv. cit. in quanto elusivo della disciplina fallimentare», nonché «incompatibile ab origine con la clausola di salvaguardia di cui all’art. 15, lett. c)», trattandosi, de facto, di «un atto privatistico che mira dissimulatamente a sottrarre agli organi della procedura la liquidazione dei beni in assenza del presupposto sul quale poggia il potere dell’imprenditore di gestire il proprio patrimonio, ossia che l’impresa sia dotata dei mezzi propri».

Sul piano effettuale, poiché «la causa in concreto perseguita dal disponente collide con le norme di cui agli artt. 13, 15 lett. e)» della Convenzione de L’Aja, si ha «la nullità dell’atto istitutivo del trust e, conseguentemente, anche la nullità dell’effetto segregativo che ne è scaturito».

Invero, pur essendo lo scopo dichiarato dal settlor quello di protezione del beneficiario, si realizza, in concreto, un «abusivo utilizzo del trust per sottrarre il disponente alla legislazione concorsuale italiana».

In sostanza, la valutazione circa la liceità dell’atto istitutivo del trust deve essere effettuata e valutata caso per caso.

Mauro Norton Rosati – Linktree