IL TRUST NELLA CRISI DI IMPRESA: UNA SOLUZIONE POSSIBILE ED INNOVATIVA MA CONTRASTATA (SECONDA PARTE)

IL TRUST NELLA CRISI DI IMPRESA: UNA SOLUZIONE POSSIBILE ED INNOVATIVA MA CONTRASTATA (SECONDA PARTE)

L’angolo del Trust, a cura del Prof. Mauro Norton Rosati di Monteprandone

Elemento avente valore indiziante dell’illiceità del trust è ritenuta, a titolo esemplificativo, la circostanza che il trust si sia posto, in maniera generica, lo scopo di operare la liquidazione per tutelare i creditori, conferendo al trustee ogni potere, qualora lo scopo sia accompagnato, de facto, da un programma strategico meramente apparente e con clausole di stile.

Un trust di questo tipo, secondo il Giudice meneghino, è radicalmente nullo in quanto «non persegue interessi meritevoli di tutela, essendo la causa in concreto perseguita dal disponente diretta ad eludere le norme imperative che presiedono alla liquidazione concorsuale in violazione degli artt. 13, 15 lett. e) conv. dell’Aja».

La tesi della nullità ex art. 1418 c.c. del trust liquidatorio (inteso quale segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale finalizzata alla liquidazione, in forme privatistiche, dell’azienda sociale) istituito dall’imprenditore (indifferentemente, persona fisica o giuridica) in stato di insolvenza allorché abbia l’effetto di sottrarre la liquidazione dei beni agli organi della procedura fallimentare, in palese contrasto con le norme imperative concorsuali, costituisce l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito (cfr. ex multis Corte App. Catania, 16 novembre 2012; Trib. Milano, 27 maggio 2013; Trib. Napoli, 3 marzo 2014).

Degno di menzione, quanto alla giurisprudenza che si discosta dall’orientamento maggioritario, è un provvedimento del Tribunale di Cremona, il quale ha ritenuto la tesi della nullità contrastante con il progressivo ampliamento degli spazi che l’autonomia privata può assolvere nella composizione della crisi d’impresa, ciò sulla base della considerazione che non solo l’ordinamento nazionale «conosce altri strumenti di autonomia privata attraverso i quali il debitore, ivi comprese le società commerciali, possono gestire per via negoziale e stragiudiziale il rapporto con i creditori, tra i quali spicca la cessio bonorum, ex art. 1977 e ss. c.c., rispetto alla quale non ci si è mai sognati di invocare una nullità originaria per il caso che l’impresa si trovasse già in stato d’insolvenza all’epoca della conclusione del contratto de quo», ma anche della considerazione che negli ultimi anni è stata, da parte del legislatore nazionale, «imboccata in misura via via crescente la strada della privatizzazione delle procedure concorsuali» (sentenza 8 ottobre 2013, Est. Borella).

Secondo il provvedimento de quo, il trust liquidatorio istituito da impresa in stato di dissesto non è ab origine nullo (o inefficace) ex art. 13 della Convenzione de L’Aja del 1985, per contrasto con la legge fallimentare ovvero con la liquidazione concorsuale: ricorrendo tale evenienza, la disciplina applicabile sarebbe quella prevista dall’atto istitutivo del trust o, in mancanza, dalla legge regolatrice prescelta per il caso di impossibilità del trust di raggiungimento dello scopo, impossibilità nello specifico «derivante dalla prevalenza della procedura pubblica su quella privata».

In altri termini, «ogni volta che, dopo la costituzione di un trust liquidatorio, sopravvenga il fallimento della società, si verificherà una impossibilità di raggiungimento dello scopo del trust stesso e, allora, dovrà verificarsi di volta in volta cosa prevedano l’atto istitutivo del trust o la legge prescelta per la sua disciplina in ordine alla sorte dei beni conferiti».

Il Tribunale di Cremona ha, tuttavia, precisato che «quand’anche sia l’uno che l’altro prevedano scopi incompatibili con la procedura concorsuale … il Curatore avrà comunque a disposizione lo strumento specifico dell’azione revocatoria per tornare in possesso dei beni conferiti in trust».

Rimedio la cui specificità ed espressa previsione a livello ordinamentale ha condotto il Giudice cremonese ad affermare che «non si vede l’utilità di ipotizzare invalidità originarie o sopravvenute del trust difficilmente praticabili, salvo solo l’ipotesi dello sharm trust».

 La   Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2014, n. 10105 conferma  la tesi della irriconoscibilità del trust e della conseguente nullità dell’atto dispositivo di trasferimento dei beni al trustee.

Si tratta della nota sentenza n. 10105 del 9 maggio 2014, Rel. Nazzicone, degna di particolare menzione avendo con essa i Supremi Giudici affrontato ex professo la questione della liceità ed efficacia del trust liquidatorio e degli effetti della sua eventuale illiceità (illiceità «ravvisata dalla corte d’appello, con riguardo al requisito dell’insolvenza della società al fine di fondare la dichiarazione di fallimento»).

La soluzione sanzionatoria adottata dai Supremi Giudici si appalesa solo in apparenza in linea con quella prevalentemente seguita dalla giurisprudenza di merito, essendo stata declinata, in maniera più articolata, sulla base della distinzione tra (ir)riconoscibilità del trust e nullità dell’atto dispositivo di trasferimento dei beni al trustee.

Secondo il complesso ragionamento seguito, la nullità dell’atto dispositivo costituisce l’effetto sanzionatorio prodotto non dalla contrarietà di tale atto alle disposizioni della Convenzione de L’Aja (segnatamente, art. 15, co. 1, lett. e), ma dall’assenza di una causa negoziale (c.d. nullità strutturale ex art. 1418, co. 2, c.c.), assenza derivante dalla non riconoscibilità a livello ordinamentale nazionale di un trust liquidatorio in presenza dello stato di insolvenza del settlor.

In primis la Corte ha precisato che la Convenzione de L’Aja del 1985, quale convenzione di diritto internazionale privato, regola la possibilità del riconoscimento in Italia degli effetti del trust: «[l’eventuale riconoscimento comporta che il trust sia regolato dalla legge scelta dalle parti o da quella individuata secondo le regole della stessa convenzione (art. 6-10); l’atto di trasferimento dei beni in trust resta, invece, regolato dalla lex fori (art. 4). Peraltro, in ragione della estraneità dello strumento agli istituti giuridici di molti ordinamenti, la Convenzione dell’Aja contiene plurimi limiti di efficacia per il trust negli art. 13, 15, 1° comma, lett. e), 16 e 18».

In particolare, l’art. 13 della Convenzione de L’Aja, nel regolamentare le condizioni del riconoscimento, stabilisce testualmente che «nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».

Nel procedere all’esame dell’istituto, i Supremi Giudici hanno rilevato che la separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato costituisce «la causa astratta» propria dello strumento del trust, il quale «si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari».

Il «programma di segregazione” corrisponde solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, la causa concreta del negozio».

Potendo il trust «quale strumento negoziale “astratto”, … essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici», si pone come imprescindibile «esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione», con l’avvertenza che l’ordinamento nazionale non può «fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne».

Conseguentemente, «la causa concreta va sottoposta ad un vaglio particolarmente attento».

I Supremi Giudici, pur avendo dichiarato di aderire all’orientamento diffuso tra i giudici di merito (secondo cui «il cd. trust liquidatorio – segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale istituita per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell’azienda sociale – è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., allorché abbia l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali, secondo le espresse regole di esclusione previste dagli art. 13 e 15, lett. e), della convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985»), hanno, tuttavia, ritenuto di aggiungere alla soluzione prospettata alcune «precisazioni», riferite precipuamente all’ipotesi del c.d. trust anti-concorsuale, ovvero l’ipotesi in cui «il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente».

Secondo il ragionamento articolato nella sentenza in commento, nel trust anti-concorsuale – trattandosi di operazione negoziale che, «sotto le vesti di attribuire ai creditori la posizione di beneficiari, non permette loro la condivisione del governo del patrimonio insolvente» – la causa concreta del regolamento consiste nel «segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente».

Ricorrendo tale ipotesi, il trust, «sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee – determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso», con la conseguenza che «l’ordinamento non può accordarvi tutela».

Sul piano effettuale, si pone come pregiudiziale «la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trust nel nostro ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali».

Ove il trust risultasse essere stato istituito in una situazione di insolvenza si porrebbe, secondo i Giudici di legittimità, in rapporto di incompatibilità con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, con la conseguenza che un siffatto trust «sarà “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della Convenzione», ovvero ai sensi della clausola di salvaguardia espressamente posta dal citato art. 15, la quale pone una espressa clausola di salvezza dell’applicazione, nel singolo Stato, delle disposizioni poste, a livello ‘locale’, a tutela dei creditori, cui è integralmente demandata sia la qualificazione della fattispecie che l’individuazione dei rimedi attivabili.

Ne consegue che, «una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset».

Poiché «l’ultimo comma [dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja, n.d.r.] aggiunge che «qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo»», compete al giudice «denegare il disconoscimento».

Segnatamente, «il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa del fallimento provvede incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio, il quale finisce per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario».

In termini pratici, il trust «deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo».

Pertanto, poiché, secondo il ragionamento della Suprema Corte, dalla dichiarazione di fallimento deriva «l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, primo comma, lett. e) della Convenzione», il negozio istitutivo del trust è «privo in via assoluta di effetti in quanto non riconosciuto ab origine», ovvero tamquam non esset.

Quanto alla questione della sorte degli atti dispositivi, di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee, essendo espressamente esclusa l’applicabilità della Convenzione de L’Aja alle questioni relative alla validità degli atti giuridici di trasferimento (cfr. art. 4) e dovendo la questione essere risolta in virtù della legge interna, «dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale) dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo ex art. 1418, secondo comma, prima parte, c.c. perché operato in esecuzione di negozio riconoscibile)».

In estrema sintesi, i Supremi Giudici hanno ritenuto che in presenza di un preesistente stato di insolvenza il trust liquidatorio non sia suscettibile di riconoscimento a livello di ordinamento nazionale e, conseguentemente, il relativo negozio istitutivo non sia idoneo a produrre alcun effetto di segregazione, nonostante il fine dichiarato nell’atto istitutivo sia quello di provvedere alla liquidazione della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio e benché l’atto contenga la clausola che preveda, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, la consegna dei beni ai creditori.

Ne deriva che, essendo l’atto istitutivo del trust tamquam non esset, l’atto dispositivo di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee è affetto da radicale nullità. In definitiva solamente una Dottrina e della Giuriprudenza molto più lungimirante autorizzerà utilizzo di tale strumento che se ben redatto e studiato potrà essere di aiuto nelle procedure di crisi aziendale.

Mauro Norton Rosati – Linktree