L’angolo del Trust, a cura del Prof. Mauro Norton Rosati di Monteprandone
La funzione propria del trust è quella di rendere un nucleo patrimoniale, capace di propri rapporti, riservato in via esclusiva alla copertura delle sole obbligazioni assunte in coerenza con lo scopo cui risulta destinato e tale da mutare la fisionomia giuridica della massa in dotazione.
L’effetto sotteso all’istituzione del trust si definisce “segregativo” e «determina la separazione dei beni conferiti nei confronti sia del patrimonio del disponente sia del patrimonio del trustee, con la conseguenza che i medesimi beni non potranno essere oggetto di azioni esecutive e/o cautelari, tanto da parte dei creditori particolari del disponente – una volta decorso il termine annuale previsto dal nuovo art. 2929 bis c.c., a mente del quale i beni immobili e i beni mobili registrati possono essere oggetto di esecuzione forzata “anche se sottoposti a vincolo di indisponibilità” o se oggetto di alienazione a titolo gratuito, sempre che il vincolo o l’alienazione siano successivi all’insorgere del credito e purché il pignoramento venga effettuato entro un anno dalla trascrizione del vincolo o dell’alienazione -quanto da quelli del trustee»
A tali soggetti può aggiungersi il protector o guardiano nominato dal settlor ed avente compiti di controllo e di vigilanza sull’operato del trustee secondo le disposizioni del medesimo settlor, dell’atto istitutivo o della legge regolatrice.
Si parla di “trust liquidatorio”, negozio giuridico mediante il quale il settlor apporta in trust tutto o parte del suo patrimonio sociale, affidando al trustee le attività di liquidazione e di soddisfacimento dei suoi creditori.
Le specificità di tale tipologia di trust ne costituiscono al contempo forza e limite. La flessibilità negoziale lo rende, infatti, particolarmente adatto allo scopo compositivo dello stato di crisi societaria e liquidatorio;
l’effetto distorsivo della par condicio creditorum determinato, invece, rende particolarmente critico il suo rapporto con le norme inderogabili in materia concorsuale.
La Suprema Corte di Cassazione è intervenuta sul tema per la prima volta nel 2014, aderendo all’orientamento, diffusosi presso i giudici di merito, che considerava nullo ex art. 1418 c.c. il trust liquidatorio avente «l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali secondo le espresse regole di esclusione» di cui agli artt. 1310 e 1511, lett. e), della Convenzione.
Il precedente ha individuato tre ipotesi astrattamente configurabili:
a) «il trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società;
b) il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa (c.d. trust endo-concorsuale);
c)il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente (c.d. trust anti-concorsuale). Ed in virtù di tale distinzione, ha concluso affermando il principio per cui debba negarsi il riconoscimento alla sola fattispecie di cui al caso sub c), stante l’inderogabilità della disciplina concorsuale, e ritenersi in astratto ammissibili le fattispecie sub a) e b), purché legittime e meritevoli in concreto.
Le possibilità negoziali sono molteplici e si adattano allo scopo perseguito. Non è inusuale, ad esempio, la coincidenza soggettiva tra settlor e trustee. Si parla in tal caso di “trust auto-dichiarato”, pacificamente ammesso, soprattutto laddove assegni ai creditori beneficiari anche poteri di controllo sull’operato del settlor-trustee.
In tal caso l’istituto mostrerebbe similitudini con la tradizionale cessio bonorum di cui agli artt. 1977 ss. c.c., differenziandosene, in via approssimativa, perché l’operazione avrebbe natura unilaterale e non contrattuale; perché il diritto al controllo da parte dei creditori sarebbe solo eventuale e non naturale e perché il vincolo di indisponibilità, fatto salvo quanto previsto dall’art. 2929 bis c.p.c., sarebbe opponibile alla totalità dei creditori, mentre per la cessio bonorum, ai sensi dell’art. 1980, secondo comma, c.c., il vincolo non escluderebbe l’avvio delle azioni esecutive dei creditori non partecipanti. (Cfr. Cass. Civ. sentenza 9 maggio 2014 n. 10105.)
Ai sensi dell’art. 13 «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
Ai sensi dell’art. 15 «La Convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme di conflitto del foro quando non si possa derogare ad esse mediante un atto volontario, in particolare nelle seguenti materie: a) protezione dei minori e degli incapaci; b) effetti personali e patrimoniali del matrimonio; c) testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria; d) trasferimento della proprietà e garanzie reali; e) protezione dei creditori in caso di insolvenza; f) protezione dei terzi in buona fede.
Qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo».
In dottrina è stata elaborata una classificazione del trust liquidatorio basata sullo scopo perseguito ed il momento il cui esso è costituito.
Sono state individuate, in particolare, le seguenti quattro categorie:
La Corte di Cassazione, pur precisando che le «aperture dimostrate […] nei confronti del trust liquidatorio non si traducono in una patente di indiscriminata sua ammissibilità, poiché evocano la necessità, abbandonato il piano dogmatico-teorico a vantaggio di quello operativo, di una valutazione complessiva indirizzata a vagliare la causa concreta del programma negoziale del trust e della meritevolezza degli interessi ad esso correlati», ha ridato dignità all’istituto, eleggendolo, come autorevolmente sostenuto a strumento competitivo «per impedire» che, in un momento quanto mai complesso come quello attuale, «imprese sane, che all’improvviso hanno perduto le proprie certezze e la dinamica dei propri cicli produttivi e che […] possano trovarsi sul baratro dell’incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni e divenire facili prede, a prezzi da saldo, di altre imprese concorrenti».
Dalla lettura della sentenza, che ha individuato limiti specifici alla utilizzazione del trust in materia concorsuale, possono ricavarsi i seguenti principi:
In primo luogo va registrato il fatto, come già cennato, che, sebbene la Suprema Corte non prenda al riguardo espressamente posizione, la legittimità del trust interno sia implicitamente riconosciuta, quasi dandosi per socialmente tipico tale istituto. Diversamente ragionando, non si spiegherebbe l’intero apparato motivazionale, volto a discernere fra trust liquidatorio ammissibile e trust non ammissibile (nell’ambito di fattispecie riferita come squisitamente interna), specie ove si consideri che la Corte muove dal consapevole ed esplicitato presupposto normativo dell’art. 13 della Convenzione, a mente del quale “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.
La S.C. parrebbe viceversa ritenere ammissibile l’impiego del trust per svolgere la liquidazione da parte di una società in bonis, senza danneggiare gli interessi dei creditori. A tale riguardo occorre tener conto di alcuni orientamenti, senz’altro più rigorosi, espressi sia dai giudici del registro sia dai tribunali in sede di impugnazione di tali provvedimenti, guidati da un consolidato orientamento del giudice del registro di Milano. Dinanzi a fattispecie nelle quali una società posta in liquidazione trasferisca l’intero patrimonio sociale (attivo e passivo) a un trust, presenti il bilancio finale di liquidazione e ottenga la cancellazione dal registro delle imprese, la posizione dei giudici ambrosiani è netta: la cessione senza corrispettivo, dunque senza realizzo, al trust non coincide con l’attività di liquidazione che quindi non è stata effettuata anzi non è stata neanche iniziata.
In sostanza il Tribunale di Milano ritiene che la cancellazione costituisca l’esito di una fattispecie a formazione progressiva, articolata nell’accertamento ad opera degli amministratori della causa di scioglimento (art. 2484 c.c.), nella nomina assembleare del liquidatore (art. 2487 c.c.), nell’attività di liquidazione in senso proprio, culminante nella redazione del bilancio finale di liquidazione (art. 2492 c.c.), recante l’indicazione della “parte spettante a ciascun socio o azione nella divisione dell’attivo”. Solo all’approvazione del bilancio finale di liquidazione può poi far seguito la richiesta di cancellazione della società dal Registro delle Imprese.
In altri termini, si cancella perché si è liquidato; il fatto che si riservi la liquidazione a un terzo e non la si realizzi secondo il procedimento classico non conduce in alcun modo a ritenere conclusa l’attività liquidatoria. Essa, per vero, non è neppure iniziata, ma meramente programmata attraverso la costituzione del trust e la relativa dotazione.
In ogni caso, restano ovviamente salve le responsabilità degli organi sociali — segnatamente, amministratori, liquidatori e sindaci — nei confronti dei creditori sociali e dei terzi. Per vero, anzi, l’affrettata liquidazione e cancellazione della società, tale da lasciare insoddisfatti creditori sociali di cui gli organi conoscevano l’esistenza rappresenta l’ipotesi più classica di responsabilità ex art. 2395 c.c.
La posizione dei giudici milanesi non parrebbe comunque contraria in senso assoluto alla posizione espressa dalle S.U. della Cassazione con le sentenze n. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, le quali hanno stabilito la definitività della estinzione della società indipendentemente dalla estinzione di tutti i rapporti giuridici che facevano capo alla società estinta, in quanto la giurisprudenza milanese riguarda la legittimità della prima cancellazione.
Il discorso appare ancora aperto! Necessario comunque un approccio maggiormente innovativo e di “coraggio” da parte dei Magistrati all’uopo incaricati.